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Anni di piombo al cinema​

Il cinema riflette la percezione dell'epoca: la violenza di estrema sinistra non è vissuta come estranea

alle lotte e alle trasformazioni sociali. Nel 1976 esce nelle sale "Todo Modo", un film di Elio Petri che

«mette in scena la morte di Aldo Moro due anni prima della sua uccisione reale a opera delle Brigate

rosse, avvenuta il 9 maggio 1978»¹.

Il cinema, dunque, assume un ruolo fondamentale negli anni di piombo prima come attore politico,

come distacco politico poi.

«Buona parte dei cineasti attivi negli anni Settanta sono stati, in diversa misura, intellettuali impegnati,

"compagni di strada" del Partito comunista, oppure simpatizzati della sinistra extraparlamentare»¹,

come nel caso di Petri, membro del Partito Comunista italiano. In Italia come dimostra il cinema stesso

era presente un maggiore interesse nei confronti della violenza di stampo comunista: «i film politici si

occupano in misura massiccia della sinistra italiana e delle sue azioni. Più di venti film parlano

esplicitamente della sua violenza politica, mentre le azioni della destra compaiono in una quindicina scarsa di pellicole. La differenza è ancora più spiccata se si tiene conto dei giorni di permanenza nelle sale. I film della sinistra hanno di fatto beneficiato di un tempo di proiezione doppio rispetto a quelli dedicati alla destra: 4276 giorni contro 2076»¹. La violenza di estrema destra è presentata e percepita come estranea ai movimenti sociali italiani dell'epoca. Nel caso del film di Francesco Rosi, "Cadaveri eccellenti" (1976), che tratta della tematica del colpo di Stato militare, la realtà sociale e culturale passa in secondo piano. Invece in "La classe operaia va in paradiso"(1971) di Petri «vengono mostrati al tempo stesso uno sciopero operaio, la militanza della sinistra estraparlamentare, la reazione del padronato e, più in generale, le condizione di vita degli operai»¹.

Tale visione cambia totalmente dopo l'affare Moro e l'omicidio di Guido Rossa, «i film seguono tutti uno schema di analisi che consiste nel dissociare violenza e politica. É come se la violenza, insomma, fosse diventata intrinsecamente terroristica, senza politica, vale a dire senza giustificazione e dunque senza alcun margine di comprensione possibile»¹.

L'angolazione politica lascia posto a quella culturale e individuale. I film successivi seguiranno in massa questa logica apolitica. Un vero e proprio interdetto culturale è calato sull’utilizzo della violenza politica, sulle sue declinazioni e sulle sue strategie di legittimazione. Si cerca di «annientare ogni tipo di riflessione politica e sociale sull'uso della violenza politica»¹. "La meglio gioventù" (2003) è un esempio di scelta esplicita di non affrontare il tema. «É tuttavia inevitabile fornire una lettura a uso del pubblico contemporaneo, che non necessariamente conosce a fondo l'epoca». Il finale del film «è focalizzato sull'importanza della famiglia intesa come solo e unico spazio vitale, l'unico punto di riferimento. La figlia del terrorista, per esempio, dichiara "Gli altri non avevano figli. Potevano fare della loro vita quello che volevano. Lei no". [...] Di fronte agli obblighi della vita familiare la lotta politica non può trovare alcuna giustificazione o spiegazione»¹.

«Il cinema degli anni di piombo è realmente in sintonia con la società italiana, malgrado le differenze di opinione che separano i registi e soprattutto malgrado il fatto che fin dall'inizio una parte di popolazione e dei partiti politici aveva ignorato, rifiutato o condannato questo tipo di impegno militare»¹.

 

¹Marc Lazar, Marie-Anne e Matard-Bonucci,"Il libro degli anni di piombo" Rizzoli, 2010, da p.277 a p.289

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